La scuola: un secolo di ritardo
Una scuola di Africo, sull’Aspromonte, scattata da Tino Petrelli nel 1948. L’analfabetismo era finalmente sceso sotto il 15 per cento, ma il ritardo sui paesi più sviluppati restava pesante.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, un secolo dopo che l’istruzione elementare era diventata obbligatoria nei paesi scandinavi, la metà degli italiani non sapeva ancora leggere e scrivere.
Anni ’50: ancora sacche di miseria
Il poeta Alessio di Giovanni dedicò ai “carusi” versi di struggente compassione:
“…Scìnninu, nudi, ‘mmezzu li lurdduma
di li scalazzi ‘nfunnu allavancati;
e, ccomu a li pirreri s’accustuma,
vannu priannu: Gesùzzu, piatati!…
Ma ddoppu, essennu sutta lu smaceddu,
grìdanu, vastimainnu a la canina,
ca macari ‘ddu Cristu’ l’abbanduna…”.
“Vi saluto in nome dei miei 8 mila amministrati,dei quali 3 mila sono emigrati in America, e 5 mila si preparano a seguirli”. Così il sindaco di Moliterno, con amaro sarcasmo accoglie a inizio Novecento il presidente Giuseppe Zanardelli, in visita nelle province lucane.
Ogni mille abitanti, nel decennio 1901-1910, se ne vanno 33,7 abruzzesi e molisani l’anno, 31,6 calabresi, 29,7 lucani 29,5 veneti e friulani, 21,6 campani, 21,5 siciliani, 20,6 marchigiani.
L’emigrazione dal Sud si configura come un vero e proprio “dissanguamento” (si comincia a parlare di “sangue degli emigrati), come un vero e proprio “svuotamento” di campagne, città, paesi. Dietro la «febbre» contagiosa dell’emigrazione vi sono i bassi salari, la fame, la crisi agraria, le catastrofi ricorrenti (terremoti, alluvioni, carestie), il desiderio di diventare piccoli proprietari e mettere la parola fine ad antiche oppressioni.
Cristofiru Culumbu, chi facisti? La megghiu giuvintù tu rruvinasti. Ed eu chi vinni mi passu lu mari/ cu chiddu lignu niru di vapuri. L’America ch’è ricca di danari/è girata di paddi e cannuni, e li mugghieri di li “mericanni”/chianginu forti chi rristaru suli…
Il 25 dicembre del 1908 l’ «Avanti!» pubblica questo canto, raccolto dalla viva voce dei contadini calabresi. Colombo viene maledetto come responsabile dell’emigrazione, intesa come rovina dell’antico mondo, dispersione e perdizione. Causa di pianti e abbandoni, solitudine di mogli, madri, sorelle, dell’erosione dell’ordine familiare e della fine dei valori tradizionali. Tra il 1876 e il 1900 quasi trecentomila calabresi, un quarto dell’intera popolazione, sono impegnati direttamente in viaggi, provvisori o definitivi. Per molti emigrati e per i familiari rimasti, che avranno accesso a nuovi prodotti alimentari, l’America diventa una sorta di Carnevale realizzato, una raggiunta Cuccagna. Gli “americani” cambiano nel giro di pochi anni l’antico volto dei paesi e delle campagne, acquistando terreni, costruendo nuove abitazioni, avviando attività commerciali, affermando una nuova mentalità, nuovi rapporti sociali.
Nardodipace non è soltanto un luogo: è tanti paesi, tanti microcosmi, tanti piccoli mondi in abbandono, tanti piccoli mondi nati altrove, lontano dalla Calabria. Un paese simbolo. La cui storia racchiude quella di tanti altri. Nardodipace racconta, nelle pieghe delle sue case antiche e postmoderne, nei suoi vicoli stretti e nelle sue piazze deserte, mille storie di alluvioni e di abbandoni, di ricostruzioni e di fughe, di lentezze e di slanci, di attese e di delusioni, di fughe e di ritorni, di speranze e di disincanti.
Un comune creato per aggregare più abitati conosce un destino di frantumazione e di dilatazione. Molte famiglie partono per il Venezuela, l’Australia, il Canada, le città del Nord Italia.
Il censimento del 1961 registra 2.729 abitanti, quello del 2001 soltanto 1.387. Il vecchio abitato conta 108 persone, Ragonà 179. Tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973 si verifica una nuova devastante alluvione. Nuove storie di evacuazioni e di trasferimenti.
il fascino del nuovo mondo
Prigionieri della miseria e dell’ignoranza, i nostri nonni scoprivano spesso i luoghi più lontani grazie alle immagini magiche del “Mondo nuovo”, un apparecchio ottico che era un pò l’antenato del cinema e che Goldoni descriveva nell’omonimacommedia come “un’industriosa macchinetta che mostra all’occhio maraviglie tante ed in virtù degli ottici cristalli anche le mosche fa parer cavalli”.
Fu anche in quei viaggi di fantasia che i venditori di sogni trovarono terreno fertile: dal “mondo nuovo” al Nuovo Mondo.
Le navi, all’imbarco, si rivelavano spesso assai diverse dalle promesse. Un emigrante partito da Genova nel 1887 con il vapore “Messico” spiega alla «Voce Cattolica» di Trento:
“Quel bastimento aveva servito a condurre dall’America del carbon fossile e pensando che noi emigranti fossimo roba da poco conto, i marinai non si erano pigliata la briga di ripurirlo. Al primo entrarvi noi lo abbiamo trovato sì lurido che ci veniva schifo e già da molti di noi si alzava lamenti contro l’ingaggiatore che ci cacciava in mezzo a tanta sozzura”.
Moltissimi furono coloro che, anzichè il Nuovo Mondo, scelsero la Francia, la Svizzera o altri paesi della vecchia Europa.
O preferirono partire per le Meriche da porti stranieri.
Il viaggio era comunque una via crucis:
“da basilea ad Havre ci si fece viaggiare in treni orribili, pigiati come le acciughe, e ci facevano sfilare in processione da un luogo all’altro in mezzo ad un migliaio di emigranti di tutte le razze e di tutti i colori, cacciati colla frusta come tanti maiali”, scrive dall’America Regina Favetti alla sorella Clotilde in una lettera poi pubblicata ne Il salto nel fosso, diRudy J. Favrett. E’ il 1898. Mezzo secolo dopo, negli anni Cinquanta e Sessanta, il viaggio sui “treni dal sole”, come vediamo non sarà poi così diverso.
Le navi di lazzaro
Caricate all’inverosimile di “tonnellate umane” e spesso ridotte a sgangherate carrette, le navi degli emigrantierano esposte a epidemie che potevano essere devastanti. Secondo Nicola Malnate, un ispettore del porto di Genova, il trasporto dei nostri nonni avveniva talvolta sugli stessi mercantili un tempo serviti alla trattadegli schiavi, “con una velocità di 8 miglia e meno di 2 metri di aria per ogni emigrante”.
Sogni in fondo al mare
L’oceano era un incubo, per chi non l’aveva mai visto. Tanto più che i santuari erano pieni di ex-voto con navi in balia delle tempeste. Da chi era già nelle Meriche arrivavano lettere come quella (scovata da Emilio Franzina) del veneto Francesco Costantin:
“Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del piroscafo, i pianti i rosari e le bestemie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose si innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, e battuto dai fianchi”.
Il primo impatto, dopo quei viaggi interminabili e spesso tragici, nel paese scelto per cercar fortuna, era un tuffo al cuore. E l’immagine del Corcovado a Rio de Janeiro, della Torre Eiffel a Parigi o della baia di Darling Harbour a Sydney, si sarebbe conficcata per sempre nella memoria dei nostri emigranti. Nulla, però ha mai potuto eguagliare il fascino emanato dalla Statua della Libertà davanti a New York. Il simbolo stessodel paradiso sognato. Come se tutti i nuovi arrivati, anche gli analfabeti, conoscessero i versi di Emma Lazarus incisi alla base:
“Datemi le vostre stanche, povere
accalcate masse anelanti d’un libero respiro,
i miseri rifiuti delle vostre sponde brulicanti.
Mandateli a me i senzatetto, sballottati dalle tempeste.
Io levo la fiaccola presso la soglia d’oro”.
“Wop” è stato uno dei soprannomi più comuni e più offensivi degli italiani negli Usa, dov’era pronunciato (“uapp”) così da suonare come “guappo”. Era l’acronimo di WithOutPassport: senza passaporto.
Condizione comune a molti, perfino in America, dove il boss Albert Anastasia diceva che la mafia era riuscita dopo pochi anni a far entrare clandestinamente 60 mila nostri emigrati solo a New York a dispetto del filtro di Ellis Island.
Gli italiani espatriati senza passaporto, in oltre un secolo, sarebbero stati almeno quattro milioni.
L’ingresso ufficiale nei paesi sognati (i clandestini erano un’altra storia) è stato sempre un duro pedaggio per gli emigranti, sia in Europa sia nelle Americhe o in Australia. Particolarmente severo era il filtro di Ellis Island, che passava tutti al setaccio con visite mediche, test attitudinali e criteri così rigidi da risultare spesso umilianti e vessatori. Tanto più che i pregiudizi verso il nostro paese, minato da colera, pellagra, gastroenterite, tubercolosi o tracoma, erano fortissimi. Un reportage di Regina Armstrong (“Fatti allarmanti sui nostri poveri immigrati italiani”, «Leslie’s Illustrated» 1901) denunciava: “C’è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati. Questi, da bambini, prima di essere abbastanza vecchi da barattare le proprie afflizioni, vengono esibiti dai loro genitori o parenti per attirare la pietà e l’elemosina dei passanti”.
Nella foto accanto di Jacobs Riis scattata a Little Italy nel 1898, un gruppo di italiani ammucchiati in un condominio di Bayard Street. Scriveva lo stesso Riis nel libro Così vive l’altra metà: “In un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera”. E spiegava: “i rapporti di polizia che parlano di uomini e di donne che si uccidono cadendo dai tetti e dai davanzali delle finestre mentre dormono, annunciano che si avvicina l’epoca delle grandi sofferenze per la povera gente. E’ nel periodo caldo quando la vita diventa insopportabile per dover cucinare, dormire e lavorare tutti stipati in una piccola stanza, che gli edifici scoppiano, intolleranti di qualsiasi di qualsiasi costrizione.
Allora una vita strana e pittoresca si trasferisce sui tetti piatti. (…)
Nelle sofocanti notti di luglio, quando quei casermoni sono come forni accesi (…) ogni camion per la strada, ogni scala di sicurezza stipata, diventa una camera da letto, preferibile a qualsiasi altro luogo all’interno della casa. (…) La vita nei caseggiati, in luglio e agosto, vuol dire la morte per un esercito di bambini piccoli che tutta la scienza dei medici è importante a salvare”.
“Comm’è amaro, stu pane”, dice una strofa di “Lacreme napulitane”. Ed era amaro davvero, il pane guadagnato lontano da casa dai nostri vecchi. Che per averlo si sono adattati, all’inizio almeno, a fare tutti i lavori. I più faticosi, i più umili, i più pericolosi.
Talora anche quelli sul filo della legalità. Abbiamo costruito ferrovie perfino in Persia lungo l’antica via della seta. Girato per le fiere di tutta l’Europa con gli “orsanti”, gli “scimmianti” e gli uomini orchestra.
Vittime a lungo di diffidenze xenofobe dall’Australia (dove i giuornali strillavano nel 1925 all’”invasione della pelli-oliva”) all’Inghilterra (dove il quartiere italiano veniva chiamato Abissinia), gli italiani sono stati oggetto di una infinità di vignette e di soprannomi insultanti.
BABIS: rospi (Francia)
BAT: pipistrello (Usa: se i pipistrelli sono topi- uccelli, gli italiani sono bianchi negri)
CARCAMANO: furbone che calca la mano sul peso della bilancia (in Brasile)
CINCALI: cinqualioli (giocatori di morra, Svizzera tedesca)
DAGO: accoltellatore da “dagger”, pugnale, o ferse da “they go”, finalmente se ne vanno o ancora da Diego, tipico nome latino (Stati Uniti e Australia).
GUINEA: negro (Stati Uniti)
MACARONI: oppure SPAGHETTI: in tutto il mondo
PAPOLITANO: incrocio tra pappone e napoletano (Argentina)
Troppe sciagure, troppi omicidi bianchi
La storia della nostra emigrazione è segnata da grandi lutti collettivi. Dovuti a volte a calamità naturali, spesso a scellerati errori umani se non a decisioni infami.Come la strage di operaie accaduta a New York il 25 marzo 1911, quand un incendio attaccò gli ultimi d’un palazzo che ospitava una camiceria dove lavoravano in condizioni disumane, con le porte sbarrate dall’esterno, 500 donne. Appena divampò il fuoco furono in trappola. Le scale antincendio cedettero di schianto e le poverette presero a gettarsi nel vuoto.
“Qualcuno pensò di tender delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto”, scrisse il “Daily Telegraph”, “ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra gradinata”.
Le morte furono 146, di cui almeno 39 italiane.
Da lì, secondo molti, sarebbe nata l’idea della Festa della Donna.
La “tragica fatalità” di Marcinelle
Un carrello uscito dai binari e finito contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione lasciati senza protezione: anche la strage di Marcinelle fu causata dalla sciatteria e dalla mancanza di tutele per i lavoratori. Era l’8 agosto 1956. Nell’incendio scatenato dal corto circuito morirono in 262, dei quali 136 italiani. Il più anziano aveva 53 anni, il più giovane 14. Marcinelle non fu che una delle sciagure che colpirono la nostra comunità in Belgio: dal 1946 al 1963, infatti, gli italiani morti nelle miniere furono 867.
Il peso del passato
“L’America è diventata la terra promessa dei deliquenti italiani!”, strillava ai primi del ’900 il capo della polizia di New York Theodore Bingham. “Il guaio è che non ne trovi uno onesto”, rincarava nel 1973 Richard Nixon. Tesi venate di razzismo. Ma è innegabile che tra 27 milioni di persone perbene abbiamo esportato, soprattutto negli Usa, anche dei criminali che, scrisse Gay Telese, trovarono nella mafia la scorciatoia al “sogno americano”. E i nomi di Al Capone, Frank Costello o Lucky Luciano riuscirono talvolta a offuscare quelli di tutti gli onesti che sgobbavano. E’ un peso che portiamo. Erede d’un passato così violento che nel 1903 il tasso di omicidi nella penisola era 6 o 7 volte superiore a quello dei maggiori paesi europei. Ancora nel 1967 la Commissione Giustizia denuncia negli Usa 24 “cartelli criminali” i cui membri “sono esclusivamente di origine italiana”.
I più linciati dopo i neri
La xenofobia anti-italiana ha avuto fiammate qua e là finite in sanguinose cacce all’uomo. Dove abbiamo pagato il prezzo più alto è stato però negli Usa: coi cinesi, siamo stati i più linciati dopo i neri. Erano così tanti i nostri emigrati uccisi e umiliati da indennizzi ridicoli che un giornale pubblicò un’amara vignetta in cui il segretario di stato americano diceva: “Costan così poco questi italiani che val la pena di linciarli tutti”. Ogni occasione era buona: nel 1891 a New Orleans 11 italiani furono massacrati da 20 mila manifestanti che avevano assaltato il carcere accusandoli di essere colpevoli di un omicidio dal quale erano sati assolti
Kalgoorlie, birra e sangue
Era l’Australian Day del 1934, i cercatori d’oro che lavoravano nelle miniere d’oro di Kargoorlie, a 500 chilometri da Perth, avevano bevuto troppo. Bastò una scintilla, una banale lite finita tragicamente, perchè gli anglosassoni scatenassero tre giorni di devastazioni bruciando e distruggento tutto ciò che era italiano o apparteneva agli slavi, considerati “soci degli Italiani”. I morti furono tre, i feriti decine, i danni incalcolabili.
L’Italia ha donato ai paesi che li hanno accolti milioni di lavoratori straordinari e alcuni grandi protagonisti. Come Filippo Mazzei (uno dei padri della Dichiarazione d’Indipendenza amaericana), Fiorello La Guardia (il più amato dei sindaci di New York), il pittore Paul Cézanne, lo scrittore australiano Raffaello Carboni, il padre della bandiera argentina Manuel Belgrano, il creatore del telefono Antonio Meucci, l’inventore del microprocessore Federico Faggin, il romanziere Emile Zola, lo statista Léon Gambetta che risollevò la Francia dopo la sconfitta di Sedan, l’artista Jack Vetriano, il padre del genere western Charles Angelo Siringo.
Le donne, pur essendo al centro di straordinarie avventure, hanno scelto spesso di restare in secondo piano nella storia dell’emigrazione. Quelle che si sono affermate sono state però moltissime. Ne ricordiamo alcune. Maria Rosa Segale, famosa col nome di Suor Blandina, formidabile protagonista della conquista del West. Tina Modotti, grande fotografa e anima del mondo intellettuale dell’epoca. Madre Francesca Cabrini, la prima santa “americana”. E Rita Levi Montalcini, che prima di rientrare in Italia diventò un punto di riferimento della scienza mondiale arrivando al Nobel per la medicina.
A cavallo di uno struzzo, ai comandi di un aeroplano di cartone, al volante di un’auto finta, nella ricostruzione di un saloon del West con una bambola a grandezza naturale, su biciclette da studio o con la parrucca e il pugnale da apache. Le foto in posa, spesso fatte in studi professionali attrezzatissimi con tutti i fondali più eccentrici e curiosi dove l’artista aveva un guardaroba completo per vestire tutta la famiglia da immortalare al massimo dell’eleganza, erano il segno del successo. Il messaggio che veniva mandato al paese, in Calabria o in Friuli, in Toscana o in Basilicata, per dire ai parenti rimasti: eccomi, sono diventato un signore. Sono foto tenere. Ingenue. Bellissime. Dove, dopo tante fatiche, tanti lutti, tanti pianti, può esplodere finalmente di gioia: è andata bene.
Carissima,
(…) io sono secco come un chiodo e biondo
come una spiga matura ondeggiando al sole:
Tutti i giorni e di più!
Però il sole dei tropici ha dato alla mia pelle
un leggero color bronzino giallo che contrasta
con l’azzurro dei miei occhi indagatori.
Ed ho perduto un dente. (…)
La prossima volta che ti scrivo
ti manderò una mia fotografia,
vedrai che bell’uomo!
Almeno se hai gusto…!
da una lettera di Silvio Alto da Serra, San Paol, Brasile 1926
(Archivio della Fondazione Paolo Cresci, Lucca)
La Nave della Sila ha il privilegio, grazie alla generosità dell’Istituto Luce (www.archivioluce.com), di offrire nello spazio riservato al Luce dentro il primo fumaiolo, larga parte dei filmati girati sull’emigrazione italiana. Dalle storie collettive, in America o in Australia, a quelle personali. Come la partenza di un ragazzino per l’Argentina o la vicenda di Filippo Gagliardi, un campano che, fatta fortuna in Venezuela, regalò al suo paese, Montesano, un pò tutto: l’acquedotto, 105 case per le famiglie povere, il convento dei cappuccini, la caserma dei carabinieri, l’asilo e infine la nuova cattedrale.
Ricostruire una camerata di terza classe era impossibile: erano troppo grandi, quei dormitori, per sistemarli nella Nave della Sila.
Il fumaiolo centrale ospita però tracce di quelle che erano quelle camerate. Le cuccette di ferro a castello col numero dell’ospite, i poveri bagagli personali ammucchiati da una parte, il buio, il rumore dei motori, il senso di oppressione… Quanto basta per capire come fosse duro viaggiare,in quelle condizioni. Scrisse Edmondo De Amicis:
“Il Commissario, che era sceso più volte nei dormitori, ci fece delle descrizioni da stringere il cuore e da vincer lo stomaco. Aveva visto là sotto delle masse intricate di corpi umani, gli uni sopra e a traverso agli altri, con le schiene sui petti, coi piedi contro i visi, e le sottane all’aria; viluppi di gambe, di braccia, di teste coi capelli sciolti, striscianti, rotolanti sul tavolato immondo, in un’aria ammorbata, in cui d’ogni parte suonavano pianti, guaiti, invocazioni di santi e grida di disperazione”.
Il terzo fumaiolo della Nave della Sila ospita, a disposizione di chi vuole ascoltare questo o quel brano, la più ricca raccolta di canzoni legate all’emigrazione italiana. Vecchie incisioni su album di 78 giri miracolosamente recuperate e “canzonette” portate a Sanremo come la stupenda “Ciao amore” di Luigi tenco, temi popolari conosciutissimi da tutti come “Mamma mia dammi cento lire” e piccoli capolavori ormai dimenticati come “Chiantu de l’emigranti”.
Il tutto arrichhito da chicche introvabili come “1913 Massacre”, dedicata da WoodyGuthrie ai morti dell’Italian Hall di calumet di cui parliamo a pag. 62. Una colonna sonora bellissima, curata da Gualtiero Bertelli che con la sua Compagnia delle Acque ha inciso alcune decine di canti del Grande Esodo riuscendo anche a ricostruire canzoni scomparse come quella struggente scritta per “I cinque poveri martiri di Tallulah”.
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